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IL RUOLO “INFERNALE” DELLO PSICOTERAPEUTA




La parola psicoterapia deriva dal greco ψυχή, “anima” e θεραπεία, "cura”. Il significato etimologico della psicoterapia è, dunque, la "cura dell'anima".

Definire la psicoterapia non è semplice, sono molteplici gli orientamenti psicoterapeutici, ma al di là di ogni definizione, la psicoterapia implica un cambiamento, che può avvenire sia a livello del vissuto interno del paziente, sia all’esterno inerente una modificazione del suo comportamento osservabile.

Carl G. Jung, psichiatra e psicoanalista svizzero, scriveva che “l’incontro di due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche, se c’è qualche reazione, entrambi ne vengono trasformati”. Sagge parole che descrivono alla perfezione la relazione che si instaura tra paziente e psicoterapeuta: quest’ultimi, infatti, devono prestare attenzione non solo a ciò che il paziente dice loro ma anche a ciò che loro stessi provano, in risposta al racconto del paziente. Devono monitorare continuamente il proprio controtransfert per riuscire ad aiutare il paziente.

La particolarità di questo ruolo è la richiesta di una conoscenza che va oltre le teorie imparate nel corso degli anni di formazione, a differenza degli altri lavori, infatti, si richiede alla persona una conoscenza più profonda di se stesso, cosa non tanto facile considerando quello che scrisse Freud:” l’Io non è padrone in casa propria”.

La conoscenza di se stessi si acquisisce soprattutto grazie ad un’analisi personale, questo è il modo migliore per prepararsi all’incontro con l’altro. Bisogna incontrare se stessi prima di incontrare l’altro, bisogna esplorare livelli di se stessi diversi da quelli più coscienti, scendere nei propri abissi per prepararsi al meglio e svolgere il proprio compito. Nella psicologia è lo psicologo stesso lo strumento di lavoro e come può usarlo al meglio se non lo conosce fino in fondo?

Bisogna far presente che la capacità di ascolto, dello psicologo non è indirizzata unicamente al paziente, ma è rivolta anche ad un altro componente della relazione creatasi in analisi, egli stesso. Deve ascoltare, però, non solo ciò che la sua mente dice ma anche cosa gli comunicano le sue sensazioni.

Lo psicoterapeuta può seguire se stesso solo se ha le capacità per farlo e queste si acquisiscono con il tempo, con un percorso di conoscenza personale e formativo, durante il quale si è studiato molto. La teoria è fondamentale per costruire le basi di questo ruolo, ma attenzione a non nascondersi dietro di essa. Perché ci si potrebbe nascondere dietro di essa? Per proteggersi dal paziente, dalla relazione terapeutica o persino da se stessi. La paura di scoprire ciò che si cela nel “profondo” fa dello psicoterapeuta un buon analista, ma quando è troppa gli impedisce di svolgere al meglio il suo lavoro.

Ciò che avviene nella relazione tra paziente e terapeuta è un po’come la situazione che descrisse Dante nella Divina Commedia, quando fu accompagnato dal poeta Virgilio negli inferi. Questi poteva accompagnare Dante proprio perché si trovava già nel Limbo, così l’analista, come Virgilio, può accompagnare il paziente negli “Inferi” proprio perché ci è già stato e conosce il luogo. Per fare questo però si deve anche conoscere la storia del paziente, entrare nel suo vissuto, per costruire una mappa evolutiva della sua vita, senza perdersi per la strada. È proprio il vissuto del paziente che orienta lo psicologo sulla strada da percorrere. Lo psicoterapeuta deve avere la capacità di ascoltare tutto, anche ciò che non gli viene detto.

Il lavoro dello psicologo agisce sul fronte, dà una speranza a chi non vede più la luce in fondo al tunnel, offre una casa a chi non si sente più al sicuro, ma cosa fondamentale, lo psicologo presta la sua mente a chi non ha avuto la possibilità o la fortuna di far maturare la propria. È un lavoro difficile perché per poterlo svolgere al meglio c’è bisogno che lo psicoterapeuta riavvolga il nastro della propria vita, che ripercorra il suo passato per vedere il suo vissuto con occhi diversi, con gli occhi di chi riesce a trasformare le proprie sofferenze in punti di forza, con gli occhi di chi riesce a perdonarsi per gli sbagli fatti, con gli occhi di chi ha capito che serbare rancore contro chi ha gli ha inflitto pene non è altro che un rinchiudersi in prigione e gettare via la chiave, senza darsi mai la possibilità di risorgere dalle ceneri.


“Conoscere la propria oscurità è il metodo migliore per affrontare le tenebre degli altri”. C. G. Jung


Dott.ssa Fabiola Del Cioppo

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